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Vincenzo Carrino: da allora per tutti fu Gimì | di Pasquale Giuliano

Lo avevo già conosciuto in altri ambiti e per altri versi. Gimì – così come tutti lo chiamavano – era molto noto a Marcianise e, forse, anche fuori. Era un pittore apprezzato e, soprattutto, una persona eclettica alla quale ci si rivolgeva in molte circostanze alla ricerca di una possibile soluzione ad un problema. Memorabile il suo sodalizio, sorretto da una inossidabile amicizia, con Pietro Zinzi al quale si deve molta della memoria storica di fatti e personaggi della nostra storia.

La sua “curiosità” non aveva limiti né ambiti di applicazione e quando il mondo divenne più tranquillo la spinta interiore lo portò – fu tra i primi a farlo- a varcare i confini italiani e recarsi in autostop fino in Scandinavia. Rimase famoso il suo stupore quando in Svezia, invitato in un scuola locale, si sentì chiedere dagli alunni se era vero che in Italia, d’estate, la gente evitava di stare al sole e per cercare un po’ d’ombra camminava per strada rasentando i muri.

Il nome Gimì, così come ebbe a dirmi una volta, gli era stato attribuito dai soldati americani nell’immediato dopoguerra, quando lui gironzolava attorno ai loro accampamenti alla ricerca di qualche regalia o, semplicemente, spinto dalla curiosità.

Negli Stati Uniti Jimmy è un nome molto comune tra i ragazzi ed i soldati, ignorando il suo vero nome, cominciarono a chiamarlo in quella maniera che entrando nel dialetto locale divenne Gimì. Da allora per tutti fu Gimì.

Quando arrivai alla Cavour lui si occupava del progetto DI.SCO. A voler utilizzare le parole di Don Milani che solo qualche giorno fa è stato citato da don Luigi Merola in visita all’attuale DD1”Cavour”, si trattava di uno di quei reparti di “Scuola – Ospedale” dove ci sono i malati più bisognosi e quindi necessitano dei migliori “insegnanti-dottori”; Gimì era lì. All’interno di quei locali gli alunni di cui si faceva carico trovavano le parole, i modi, gli atteggiamenti, le attività che li tenevano all’interno di una comunità che si adoperava per evitare la loro fuoriuscita verso l’illegalità e l’abbandono.

Era un insegnare duro, parco di soddisfazioni, che lasciava spesso posto all’amarezza, alla frustrazione ma lui sembrava esserne indenne, sempre pronto a ricominciare. Ricordo di avergli sentito pronunciare raramente le parole “adesso ti dico come si fa” diceva sempre “adesso ti faccio vedere come si fa”. La sua, piuttosto che del “dire”, era la scuola del “fare”. Le sue conoscenze – che erano veramente tante – le estrinsecava, con grande competenza, attraverso il suo agire, i suoi costrutti che produceva in gran quantità.

Non lo sentii mai parlare di didattica, di pedagogia, so solo che i suoi metodi erano vincenti ed era evidente che, magari senza rendersene conto, di didattica e pedagogia era un praticante più che un teorizzante.

Con il senno del poi penso a qualche affermazione di Daniel Pennac  “non esiste la pedagogia, esistono i pedagogisti” e rifletto su di un articolo comparso sulla rivista Scuola e Didattica qualche mese fa: “Pedagogia del lavoro”.

Su quei tavoli all’interno dei laboratori c’era di tutto, argilla, catrame, oli, pennelli, martelli, pinze, scalpelli, collanti, silicone e quant’altro. Quello che però mi piaceva di lui era la capacità di costruirsi l’attrezzo giusto per la bisogna. Non buttava niente, neanche i bicchierini del caffè, perché nella sua mente quell’oggetto aveva già trovato un potenziale impiego.

Niente lo turbava ed un errore, un eventuale inconveniente, si trasformava in una nuova possibilità, così come la volta che un vaso, sottoposto alla cottura in forno, esplose. Non fece una grinza: stette un attimo a pensare e poi raccolse tutti i cocci e li incollò “creando” un vaso antico che colorò opportunamente sottoponendolo ad un processo di invecchiamento.

Noi due ci avvicinammo lentamente, con l’incalzare delle attività che mettevamo in essere a scuola, all’inizio rimanendo ognuno un po’ sulle sue. Poi un giorno uno di quegli alunni impegnato in una attività teatrale provava, con poca convinzione e senza riuscirci, ad impersonare “il banditore”, un personaggio della cultura locale marcianisana, servendosi anche di un campanaccio.

Mi offrii di farlo io e credo di averci messo un impegno tale che il ragazzo non ebbe più tentennamenti. In quel momento cadde un muro ed insieme a tanti atri che in quegli anni si impegnarono costruimmo di tutto: quinte per spettacoli teatrali, palchi, addobbi, pastori, cartoline natalizie, maschere carnevalesche, vasi, icone lignee, affreschi.

Le sue scenografie avevano dimensioni ragguardevoli e non si poneva mai il problema di cancellare le vecchie per doverne dipingere delle nuove, senza avere la presunzione di aver prodotto un’opera d’arte che avrebbe dovuto essere conservata nel tempo. Quello che doveva venire era, per lui, sempre il tempo migliore. La sua presenza contribuì moltissimo – devo dire insieme a quella di altri che nel tempo si avvicendarono- a scrivere una ricca pagina di storia della Cavour.

Eppure, a mio avviso, non ebbe i riconoscimenti che avrebbe meritato. Era bravo (forse troppo) e come tutte le persone che “non sanno, sanno fare” rendeva tutto estremamente semplice agli occhi di chi osservava e, pertanto, il suo operato non era apprezzato nella giusta misura. Questa affermazione mi sento di ripeterla più volte ma rimane un problema mio. Lui, ne sono sicuro, avrebbe continuato a dirmi: “Aspetta, mò ti faccio vedere comme facimmo”.

Pasquale Giuliano

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