“Gentile Redazione, nel mese di agosto, un articolo a firma di Nicola Erboso, ha riportato all’attenzione di studiosi e appassionati di storia antica, il dibattito sulla natura del cippo di Trentola: pietra gromatica o contropeso di torchio? L’autore sul finale predilige – non a torto – la seconda ipotesi, in virtù del risolutivo chiarimento sugli incassi a coda di rondine operato nel 1987 dal prof. Liverani, presenti in un certo numero di pietre, lavorazioni queste essenziali al funzionamento di un particolare tipo di torchio, detto ‘a leva orizzontale’ [cfr.: P. LIVERANI, Termini muti di centuriazione o contropesi di torchio? stà in Mélanges de l’Ecole française de Rome’, Antiquité Année 1987, Vol. 99, N. 1: www.persee.fr]. Successivi riscontri indirizzati a leggere l’uso agricolo, e non agrimensorio, di tali pietre si sono da allora accumulati, rafforzando la natura di contropeso per torchio – di vino, olio di oliva, olio di noci – culminanti nel recentissimo e conclusivo studio impostato al chiarimento dell’assetto agrario della Val Belluna, nel quale, di passaggio, vi è pure un accenno alla pietra di Trentola [cfr.: G. ROSADA, J.TURCHETTO, La questione dell’assetto agrario e dello sfruttamento delle risorse nella Val Belluna romana, stà in: Est enim ille flos Italiae. Vita economica e sociale nella Cisalpina romana, Verona 2008].
Le ultime verifiche archeologiche definiscono i massi in questione quindi come contropesi per ‘torchi a leva orizzontale’, escludendone così l’iniziale natura di cippi gromatici anepigrafi: tutto risolto allora? Il mondo accademico propende per il si; tuttavia, per onestà intellettuale, alcuni autori ammettono come l’argomento sia chiarito al novantanove per cento. Esiste infatti all’interno della questione uno spazio ambiguo – o meglio, per usare le parole di Turchetto, ‘di certa incertezza’ –, difficile da risolvere; Salvatore Settis, in prefazione ad un testo di argomento gromatico, spiega che: «Chi vuole ricostruire la storia antica dispone di un numero grande, ma finito, di notizie, tutte da verificare con l’armamentario di strumenti di confronto e controllo». [introduzione a: Misurare la terra: centuriazioni e coloni nel mondo romano, Modena 1983]. Accade sovente che per ‘ricucire i buchi’ di una storia antica, occorra operare per ‘aggiunte arbitrarie’, realizzate seguendo la logica del racconto e necessarie a sostenerne la sintassi. Così succede che in campo archeologico una antica lapide iscritta, ma incompleta, possa essere ricostruita per intero in virtù di aggiunte, certo arbitrarie, ma utili alla comprensione di ciò che fu il testo originale; accade pure per i frammenti di un vaso, riordinati nella loro forma originaria grazie all’aggiunta di nuova creta, a consentirne la visione globale, della sua ‘quasi’ perfetta compiutezza. C’è sempre quel ‘quasi’ di mezzo a ricordarci che il numero di reperti restituitici dalla storia è sì grande, ma finito: quello che manca lo dove aggiungere – anche congetturando – lo storico, con la ricerca, ma soprattutto con nuovi ritrovamenti. Per colmare i vuoti della storia, per togliere di torno le congetture, servono prove concrete: occorrono ‘testimoni attendibili’ per sostenere, al cento per cento, una data versione del racconto storico. Nel nostro caso il testimone c’è, ma, purtroppo, per sua natura è muto! Mancando nuove prove si accetta anche la congettura, purchè sia logica, sperando che la sua evidenziazione consenta di indagare e di recuperare un qualche cosa che, in prima battuta, era passato inosservato.
Il ‘racconto storico’ operato dal 1987 ad oggi, fondato sulla soluzione della natura degli incassi, ci spiega come un blocco, inizialmente ritenuto cippo gromatico muto, sia invece altra cosa, un contropeso di torchio: la spiegazione, basata, lo ripeto, sul disvelamento della natura degli incassi a coda di rondine, è perfetta. Rimangono sul tavolo le ventiquattro pietre individuate dal De Bon nel 1933, quelle classificate come ‘cippi terminali anepigrafi’ dal Fraccaro – blocchi che sono all’origine della nostra lunga storia – tutte sfornite degli incassi a coda di rondine! Ma allora, questi massi senza incassi, cosa sono? Il mondo accademico, a fronte di tale anomalia, li definisce – congetturando – come blocchi contropeso la cui lavorazione degli incassi non era ancora stata compiuta. Definizione debole, vien da dire, anche se l’unica ammissibile volendo rimanere fedeli alla natura di contropeso per tali pietre. Da tale congettura sorge spontanea la domanda: forse che nell’antichità esistevano laboratori di blocchi contropeso per torchi al punto tale che ne sono rimasti, per così dire, alcuni in ‘giacenza’, senza incassi? E ancora, il blocco contropeso doveva rispettare precisi standard formali e dimensionali per poter funzionare, al punto da prevederne una fabbricazione in ‘catena di montaggio’, con il conseguente surplus?
Liverani stesso ci dice di no: il contropeso – spiegano gli antichi, Plinio fra tutti – poteva essere anche una cassa di legno, o di metallo, riempita di sassi, oppure un macigno di forma parallelepipeda o similare: alla base di un campanile nella provincia veronese ne sono murati ben quattro esemplari, un quinto poi sulla facciata della chiesa, un sesto collocato nel piazzale, in compagnia di un blocco di forma cilindrica munito anch’esso di incassi! Oltre al blocco perfettamente rettangolare poteva servire allo scopo anche un frammento di frontone, di chissà quale edificio antico, come quello individuato da Liverani all’interno delle mura gallieniche di Verona, dotato dei soliti incassi; stando poi ad ulteriori evidenze presenti su pubblicazioni raffiguranti torchi a leva orizzontale sparsi nell’area mediterranea, appare chiaro come il blocco contropeso si denunci con una qualsiasi sagoma, in quanto ciò che più importa non è la forma che riveste, ma bensì il suo peso.
E infine: è possibile assicurare che tali pietre siano nate esclusivamente come contropesi? O meglio dire: esistono evidenze inconfutabili che vietino di supporre che tali pietre possano essere anche blocchi contropeso, reimpiegate a tale scopo una volta dismesso l’originaria funzione di segnacolo gromatico?
Si entra, per risolvere il quesito, nel terreno delle congetture, nel territorio di quell’uno per cento che manca a risolvere perfettamente la questione, terreno questo, si sa, in cui è facile perdersi.
Ammettiamo, per un attimo, di voler accettare in maniera piena e radicale la lettura di contropeso per queste pietre: per logica conseguenza, i ‘cippi gromatici anepigrafi’ spariscono dalla scena della storia, in quanto tramutano tutti – con incassi o meno – in contropesi: di loro ne resta memoria solamente nei testi dei Gromatici Veteres, dove sono ampliamente citati, insieme a quelli iscritti [cfr.: Gromatici Veteres. Corpus agrimensorum Romanorum, Berlino 1848, risorsa web da google libri]. Se esistono, i cippi anepigrafi, non sono ancora stati trovati.
Voglio dedicare alcune riflessioni alla pietra di località Trentola, restando ancora nel campo delle congetture: stando alle immagini fotografiche presenti nelle pagine del ricordato testo del 1983, queste mostrerebbero una leggera rastrematura nella parte seppellita. A mio parere, tale sembianza – se confermata – stabilirebbe che la pietra venne lavorata per essere in parte interrata, lavorazione questa non utile alle pietre contropeso. Anzi, come ben spiega Liverani, i contropesi dovevano potersi alzare leggermente, per assecondare la naturale flessione delle travi lignee nell’iniziale operazione di torchiatura: rimanendo di poco sollevate, queste prolungavano nel tempo e con continuità l’azione di spremitura, fino al loro ritorno alla posizione di riposo. Perchè allora tale lavorazione? (sempre che l’immagine fotografica non tragga in inganno). Di conseguenza, i casi sono due: o la pietra in oggetto, in virtù degli incassi, in ogni caso è nata come contropeso, ma per un genere di torchio in cui si preveda l’interramento della pietra (abbiamo così la categoria: ‘torchio tipo Marcianise’, una novità!), oppure la pietra è qualche cosa d’altro – cippo gromatico, miliario, paracarro, scherzo della natura – e gli incassi sono stati eseguiti successivamente (confermando in tal modo la congettura del reimpiego).
Aggiungo che meditando ulteriormente su queste due foto, mi viene da ipotizzare come attualmente la pietra sia posizionata capovolta!
Se si legge con attenzione la descrizione di Mario Pagano alla pagina 233 del testo citato ci si accorge dell’evidenza di questo ultimo aspetto; scrive infatti: «Negli scritti degli agrimensori solo per poche categorie sono chiarite le differenze formali: i termini graccani sono rotondi, alti piedi 4 o 4 e mezzo, del diametro di un piede o di un piede e mezzo, e lo stesso quelli triumvirali e augustei. Augusto prescrisse che essi fossero di pietra calcarea o di piperno (ex saxo silice aut molari), conficcati in terra per 2 piedi e mezzo e fuori terra 1 piede e mezzo». La parte interrata è quindi per un piede maggiore di quella fuori terra (un piede romano è poco meno di 30 cm): lo stesso autore ci conferma che: «l’altezza totale è di m. 1.31, ossia quasi precisamente quattro piedi e mezzo; il cippo è attualmente fuori terra per circa 80 cm», ne consegue quindi che la parte interrata sia pari a 50 centimetri; il rapporto così corrisponderebbe.
A volerla dire tutta, se la pietra di Trentola, in virtù di questa congettura, giace capovolta, allora la parte più significativa, dal punto di vista archeologico, sarebbe quella sepolta: la fotografia presentata da Pagano ne mostra solo una breve porzione; e se ci fosse una qualche iscrizione sulla parte non visibile? Allora sarebbe non un cippo anepigrafo, ma graccano, e confermerebbe l’idea del De Paulis che Marcianise fu oggetto di centuriazione in epoca romana……
Mi fermo: il campo delle congetture è davvero pericoloso!”
Con cordialità,
arch. Girelli Cristiano