Biagio Chiara iniziò la sua opera letteraria a Novara, dove nacque il 29 ottobre 1880 da Pietro e Angela Rossi, e dove dal 1 gennaio 1900, ad appena diciannove anni, dirigeva la rivista “Cavallotti” (titolo ispirato alla memoria del poeta, drammaturgo e politico Felice Cavallotti, fondatore del partito dell’Estrema sinistra storica), sulla quale comparvero scritti di Gabriele D’Annunzio, Luigi Capuana, Edmondo De Amicis, Emilio Zola ed altri. Qualche anno prima, nel 1898, Chiara già collaborava con il settimanale “Gazzetta Letteraria” di Torino. Nel 1901 scrisse l’ode Latin sangue gentile, che fu attenzionata di critica da parte della “Revue Franco-italienne et du Monde Latin” di Napoli[1], in cui affrontò la questione dell’irredentismo (la dedica recitava: «a Trieste/prole italiana/per gli irredenti che aspettano»). Collaborò a Emporium (rivista mensile illustrata, d’arte, letteratura, scienze e varietà), a “La Settimana” (rassegna di lettere, arti e scienze diretta da Matilde Serao) e al giornale “L’Ora” di Palermo, diretto in quel periodo da Medardo Riccio e poi da Edoardo Scarfoglio, su cui pubblicò “Primavera d’idee”. Nel 1904 diresse la rivista di orientamento nazionalistico “Roma Flamma”[2], che fu progettata come mensile ma uscì solo con il numero del mese di luglio. Qui pubblicò Roma Flamma (terzine) e L’orma di Sansone, un racconto dedicato a Giuseppe Lipparini, oltre a recensire le poesie Dolcezze, di Sergio Corazzini, e Armonie in grigio et in silenzio, di Corrado Govoni. Alla redazione di questa rivista c’erano Stefano Cesare Chiappa, Sergio Corazzini, Nino De Sanctis, Corrado Govoni, Giuseppe Lipparini e Alfredo Tosti. Nello stesso anno collaborava anche al settimanale pugliese (poi quindicinale), “Scienza e Diletto, rivista minima di varia cultura”, diretta da Nicola Pescatore. Nel 1905 fondò e diresse a Palermo “Il Diorama. Letterario, Artistico, Sportivo”, e sempre in Sicilia collaborò con “Matelda”, rivista di poesia italiana pubblicata a Catania, fondata nel 1908 e diretta da Salvatore Giuliano e Giuseppe Villaroel. Chiara, molto vicino alla cultura poetica simbolista[3], era giunto in quel periodo a una tale notorietà che Marino Moretti, nel recensire la poesia Lanterna di Aldo Palazzeschi sul “Faro Romagnolo” del 20 ottobre 1907, riportò le seguenti osservazioni: «Che bella fioritura di poeti esotici abbiamo ora in Italia! Il Govoni, il Tarchiani, il Martini, il [Biagio] Chiara, il Palazzeschi, il povero Sergio Corazzini!». Dalla sua città natia Biagio Chiara si era spostato prima a Torino per studiare Lettere, senza portare a termine gli studi, poi si trasferì a Milano, Roma, Palermo e infine a Napoli, dove arrivò nel 1906. Qui viveva in una lunga stanza al terzo piano di una palazzo in via Formale 30, a ridosso di Piazza Carità a Toledo, e alle pareti conservava quadri di Curci, Postiglione, Terracina, De Nicola, Cammarano, Cocco e, su alcune mensole, sculture di Raffaele Uccella e Gaspare Bisceglia[4]. Un uomo «tutto compostezza misurata e cautela gentile, incapace di contrariare una farfalla», intorno a lui si raccolsero diversi poeti e artisti[5] “che lo riconoscevano Maestro”, e che si riunivano tutti i giorni al caffè Gambrinus, «ritrovo sacramentale a fin di giorno»[6]; tra questi c’erano i giovani Raffaele Uccella ed Elpidio Jenco. Appena giunto a Napoli, Chiara iniziò a collaborare con il settimanale “La Tavola Rotonda”[7], giornale artistico, letterario, musicale, di cui fu prima redattore capo e poi, dal 1909, condirettore insieme al proprietario Ferdinando Bideri, per le cui edizioni diresse anche la «Collana di Smeraldi» e pubblicò numerosi testi e traduzioni. Per la Biblioteca musicale de “La Tavola Rotonda” elaborò la traduzione ritmica in italiano per due canzoni musicate da Eduardo Di Capua, ‘A Furastera (Bella Straniera), versi di Bovio e Murolo, e Pusilleco, Pusì (O Posillipo, o splendore), versi di Murolo[8]. Collaborò al “Giornale d’Arte”[9] (dove aveva vinto un concorso con la novella “Serena della selva”, che poi inserì nel suo libro “Anime inferme”), alla rivista “Poesia” di Filippo Tommaso Marinetti[10] e a “Vela Latina”, e fu uno dei pochi poeti italiani le cui opere furono recensite dal “Mercure de France”. In un suo scritto Elpidio Jenco racconta che furono Raffaele Uccella e Biagio Chiara a “concepire” la rivista Vela Latina, trovando anche il finanziatore nella persona del sig. Leonetti di Caserta: Biagio Chiara ebbe l’incarico come direttore, ma rifiutò “per la timidità e irresolutezza”, e cedette a Ferdinando Russo la direzione[11]. Alla rivista “La Diana” di Gherardo Marone collaborò al numero del 31 luglio 1916 con “La lucerna cabalistica”, e di conseguenza offrì la sua collaborazione anche a “Crociere Barbare” diretta da Sossio Gigliofiorito, su cui si firmava con lo pseudonimo B.3[12], e per le cui edizioni fu pubblicato postumo “Fra i giovanissimi: Elpidio Jenco”, con prefazione di Pasquale Tartaglione. Educatore e traduttore, di animo buono e gentile, Chiara fu un poeta «povero ma che non aveva calzato mai un paio di scarpe rotte», come ricorda il suo amico e collega Achille Macchia[13]. «Geniale poeta», la sua fu un’opera molto complessa e originale. Il suo lavoro di traduttore, prosatore e scrittore fu sempre mal retribuito e i suoi grossi volumi scolastici[14] furono «compilati sotto il pungolo del bisogno»[15]. «Rendigotto alla Foscolo, ‘lavallière’ bianca, nera, gialla, o azzurro cupo», lontano dalla comune mentalità, con una propria concezione dell’arte letteraria, Napoli prima «lo elevò sino alla cattedra del conferenziere nei circoli artistico-mondani ed alle poltroncine dei salotti ‘rasta’ mondani», poi lo dimenticò fino alla morte. Morì, letteralmente di fame, a Napoli il 27 dicembre 1918, «lasciando in eredità 31 volumi pubblicati e 6 da pubblicare». Fu sepolto in una fossa comune che gli spettava per “diritto di miseria”.
Gianni Di Dio
[1] Chronique des lettres latines, in “Revue Franco-italienne et du Monde Latin”, Napoli, settembre 1901, pag. 77.
[2] Per un approfondimento su questa rivista vedi A. I. Villa, Neoidealismo e rinascenza latina tra otto e novecento, LED, Milano, 1999.
[3] Su “Roma” del 15 luglio 1930, Achille Macchia lo definirà «il più grande poeta simbolista che abbia avuto il primo novecento». Giuseppe Ungaretti, in una lettera a Gherardo Marone, lo definisce “decadentista”: cfr. G. Ungaretti, Lettere dal fronte a Gherardo Marone, a cura di A. Marone, Mondadori, Milano, 1978, pag. 62.
[4] «…Quella sua cameretta divisa metà in giaciglio e metà in studio da uno scaffaletto per i libri e da una tendarella smorta, era al terzo piano d’un casamento vecchio, all’angolo di due corridoi senza aria, notturni anche in pieno mezzogiorno. Assetata di sole, e pur tuttavia, come liricizzata dalle costumanze bohème del suo inquilino pallido, essa ti si apriva sempre accogliente, cortese, amicale: ho tuttora nella memoria il suo pulviscolo atmosferico così drogato di macedonie consunte, di tracce di caffè odorosi, di libri freschi, di qualche fiore: e il basilico alla finestra, e i ricordi illustri, i quadri e i disegni degli amici alle pareti. Biagio vi fu poi trovato morto, di fame, con un libro da recensire sulle ginocchia…», vedi E. Jenco, Memorie di vita artistica napoletana 3, in Cronache nuove, n. 12, 5-20 novembre 1948.
[5] «…Nelle sale del caffè Esposito, tra la Via di Chiaia, la Piazza di S. Ferdinando e la Piazza del Plebiscito, si scrivevano le laudi del Gambrinus, del caffè, dell’acqua e degli eroi per ridere. Capo brigata: Biagio Chiara…», U. Galeota, Raffaele Uccella, in I Discorsi e gli Elogi dei Santi e dei Poeti, Albrighi, Segati e C., Milano, Roma, Napoli, 1930.
[6] «A una certa ora, dopo il tardo vespro, ognuno di noi sentiva di dover correre a prepararsi per l’uscita che era il compenso unico alla fatica cotidiana: e giù a rotta di collo per l’asprezza delle rampe, o dalla costa di via Tasso e Vittorio Emanuele, o dal Vomero ombroso, o dalla selvosa Arenella, verso quel piccolo paradiso sfolgorante di stucchi di pitture e di specchi, che l’arco di piazza Plebiscito protendeva in atto solenne al centro più movimentato della vita cittadina. Mancare era una sofferenza strana: capace di logorarti in torbido il preludio del sonno, e farti battere la fronte con la frase dell’Imperatore Flavio: Ecco una giornata perduta!», ibidem.
[7] Dal 1914 la testata diventa “Cronaca Bizantina – La Tavola Rotonda”. Biagio Chiara scrisse diverse cose anche su Piedigrotta, numeri straordinari de “La Tavola Rotonda” e de la “Cronaca Bizantina”. A questi giornali collaborerà fino alla sua morte.
[8] Scrisse anche i versi per Plenilunio estivo: Per canto e pianoforte, musicati da Vincenzo Davico. Altre sue composizioni “per musica” sono: Con tutto il cuore e Ora Italica.
[9] Settimanale diretto dallo scrittore siciliano Alessandro Lalìa Paternostro.
[10] Questa rivista, fondata da Marinetti nel febbraio del 1905, divenne poi l’organo ufficiale del movimento futurista. I fascicoli di “Poesia” vennero documentati sistematicamente su “La Tavola Rotonda” dove si avvertiva anche un certo entusiasmo per il “marinettismo” (nozione formulata per la prima volta proprio da Biagio Chiara): non a caso sul numero del 14 febbraio 1909 fu pubblicato il “Manifesto del Futurismo”, in anticipo rispetto alla pubblicazione su Le Figaro del 20 febbraio 1909. Sul numero del 27 marzo 1910 Chiara, sotto lo pseudonimo “Pigroncello”, scrisse “La vittoria dei Futuristi a Torino”, nonostante durante la serata futurista al teatro torinese scoppiarono risse, parapiglia e petardi lanciati sul palcoscenico.
[11] vedi E. Jenco, Memorie…cit.
[12] Sul numero del 15 marzo 1917 pubblicò “Giovanni Rabizzani” e “Guido Verona”.
[13] Achille Macchia, Alla memoria di Biagio Chiara, in – Cronaca Bizantina e “Tavola Rotonda” – del gennaio-febbraio 1919.
[14] Chiara scrisse diversi volumi di Temi svolti con gli editori Ceccoli e Bideri, dei quali furono fatte alcune ristampe.
[15] T. Rovito, Letterati e giornalisti italiani contemporanei. Dizionario bio-bibliografico, Rovito ed., tip. N. Jovene, Napoli, 1922.