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“Italian Songbook”, il disco/rinascita del jazzista campano Luca Aquino | di Pasquale Gentile

“Ho tanta voglia di suonare dal vivo, di far ascoltare il mio nuovo suono, per me ancora più bello di prima, e il mio nuovo modo di suonare jazz, più viscerale e diretto, meno pensato”. Sono alcune delle parole che Luca Aquino ha rilasciato in una lunga intervista al critico Alceste Ayroldi, nel dicembre scorso, nella quale ha anche ricordato lo stop forzato che la sua carriera musicale ha dovuto subire nell’estate del 2017, a causa di una paresi acuta al settimo nervo del facciale, che gli ha impedito di soffiare per più di un anno nella sua tromba, ma che poi, fortunatamente, attraverso una lenta ripresa, lo ha visto nuovamente ritornare sulla scena jazz in forma smagliante. Tant’è che nella primavera dell’anno scorso, è entrato negli studi romani della Digital Record per registrare il disco “Italian Songbook”, che gli è valso due preziosi riconoscimenti da parte dell’annuale referendum TOP JAZZ 2019, indetto dalla rivista italiana Musica Jazz tra i maggiori critici e addetti al settore. Tra le top ten presenti in  questa speciale classifica, Luca Aquino è stato inserito sia in quella riservata al “Musicista Italiano dell’Anno”, sia in quella per il “Disco Italiano dell’Anno”, quello di cui appunto stiamo parlando, prodotto dalla casa discografica tedesca ACT Music e che contiene alcune tra le più belle canzoni del repertorio musicale italiano: da “Caruso” di Lucio Dalla a “La Canzone dell’Amore perduto” di Fabrizio De Andrè, da “Almeno tu nell’Universo”, resa celebre dall’indimenticabile Mia Martini, a “Un Giorno dopo l’altro” di Luigi Tenco, più due memorabili brani di Ennio Morricone e Nino Rota,  senza dimenticare alcuni capolavori del patrimonio della canzone napoletana, come “Scalinatella”, “Era de Maggio” e “Anema e core”. Con un’unica eccezione, un omaggio al mito di Chet Baker con il brano “So che ti perderò”, che il trombettista americano scrisse nei suoi anni trascorsi in Italia. “Chet è il trombettista che amo di più, insieme a Miles – ha dichiarato Luca Aquino – qualche anno fa avevo un timore reverenziale nei suoi confronti, anche nel pronunciare il suo nome. Ho poi chiamato Chet il mio cagnolino, anche per costringermi a pronunciare il suo nome cento volte al giorno. Su questo brano ho preferito però suonare il trombone a pistoni che, durante il percorso riabilitativo, mi ha aiutato, avendo un bocchino più largo”. Anche la scelta dei compagni di viaggio è stata felice, perché ha visto la partecipazione di Danilo Rea al pianoforte e Natalino Marchetti alla fisarmonica, in otto brani del disco. “Con Danilo Rea e Natalino Marchetti c’è stato un feeling immediato – ha tenuto a precisare Luca Aquino – abbiamo registrato tutto in due ore. Danilo è un poeta, si sa, e Natalino è un fisarmonicista molto raffinato ed elegante…”. I restanti quattro brani del disco, hanno visto la presenza dell’orchestra Filarmonica di Benevento, arrangiata magistralmente da Giovanni Francesca, con l’aggiunta di Fabio Giachino al piano e Ruben Bellavia ai tamburi. Luca Aquino è anche laureato in Economia, la qual cosa lo ha aiutato tantissimo nel programmare e gestire la sua attività musicale, riuscendo a capire con lungimiranza i flussi del mercato, anche se, a suo dire, troppe cose sono cambiate negli ultimi tre anni. A chiusura dell’intervista, Alceste Ayroldi lo ha punzecchiato sul futuro del jazz in Italia, sul quale Luca è stato molto critico, portando l’esempio della sua esperienza fatta nell’autunno scorso in Russia, invitato a tenere una masterclass e un concerto a San Pietroburgo. “La sera dopo sono andato ad una jam session in un locale dal nome The Hat e sono rimasto esterrefatto dall’età del pubblico. Erano tutti ventenni, appassionati di jazz, a far foto e video con i loro cellulari a musicisti acclamati e osannati. In tutta la mia vita non ho mai visto tanti ragazzini a una jam o a un concerto. Neanche a New York. Mi sono chiesto come mai. Di certo le scuole di musica sembra funzionino in Italia e anche in Europa, come in Russia, ma la differenza è che lì nei taxi, nei locali e nelle hall degli alberghi loro ascoltano jazz, R&B, Soul, Blues, musica classica. Parlo di musica trasmessa dalle radio! In Italia, a parte Radio Rai 3 e qualche altra emittente, si ascolta solo Pop e quel che resta della musica Indie. Nulla contro il pop, ma di certo la fa da padrone nelle nostre stazioni radiofoniche e, come sappiamo, essendo una musica più semplice vince facile. Detto ciò ritengo il tutto forse debba partire dai piani alti. Il termine cultura deriva dal verbo latino colere, “coltivare” e spetta al Ministero dei beni culturali comprendere, una volta per tutte, che il jazz oggi può essere considerato al pari di altre musiche perché ben radicato nel nostro Dna e quindi andrebbero rivisti i criteri generali delle percentuali di ripartizione dei contributi allo spettacolo”.

Pasquale Gentile

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