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Salvatore Delli Paoli racconta la storia di Capodrise a 70 anni dalla nascita del Comune: le rivalità con i marcianisani e i personaggi illustri che hanno fatto la storia

Intervento del Prof. Salvatore Delli Paoli al convegno tenutosi l’altro ieri, 9 dicembre 2016, nell’aula consiliare del comune di Capodrise in occasione dei 70 anni dalla ricostituzione del Comune:

“Il compianto prof. Andrea De Filippo, più volte sindaco di Capodrise, per la precisione nei periodi 1971-75, 1982-88, 1991-92 nel corso del suo intervento nel dicembre del 1996 in occasione della cerimonia del tutto simile a questa di oggi per il cinquantenario della ricostituzione del Comune di Capodrise voluta dal sindaco in quel momento in carica Anthony Acconcia, diceva, con il garbo e l’arguzia che gli erano soliti, che per un capodrisa­no l’offesa maggiore era dirgli di essere un marcianisano. Una affermazione che indubbiamente, nel momento in cui veniva fatta, nascondeva una verità, ma che ad un marcianisano di nascita, come me, divenuto capo­drisano per residenza, suonò già allora come il segno di una passa­ta rivalità che, se ancora resisteva nell’animo forse di qualche vecchio capodrisano, e poteva essere altrettanto condi­visa da qualche vecchio marcianisano, certamente non era più nello spirito di una gran parte della cittadinanza di Mar­cianise o di Capodrise che negli ultimi decenni ha ricevuto un’immigrazione sensibile, in buona parte ascrivibile proprio ai “nemici” marcianisa­ni. I quali, ad onor del vero, dal canto loro già venti anni fa non si sentivano affatto, ed io tra loro, in “partibus infidelium”, in una terra straniera, né, mi pare che vengano a maggior ragione adesso segnati a dito dagli “indigeni” come i nuovi barbari.

Eppure l’affermazione di De Filippo, che alludeva, tra il serio e il faceto, alla persistenza di echi ricorrenti di un antico dissidio, non era affatto gratuita, alimentata, sia pure nei suoi residui epigonali, da ragioni storiche e culturali insieme e la sua origine era da ricondurre essenzialmente alla soppressione del Comune di Capodrise in epoca fascista. Ricordo a questo proposito, valendomi dell’ottimo studio fatto da Pino Campomaggiore, che il Comune di Capodrise venne aggregato a quello di Marcianise il 20 aprile 1928 e fu ricostituito come comune autonomo soltanto il 9 giugno 1946 con la nomina a commissario prefettizio dell’avv. Dante Delli Paoli che resse l’ente fino alle elezioni del 24 novembre 1946. Queste portarono alla vittoria con maggioranza più che bulgara, addirittura oltre il 90 per cento del Partito Comunista Italiano guidato da Pasquale Jenco (fratello del poeta Elpidio), eletto infatti sindaco nella prima seduta. Dopo la pausa costituita dalla sorprendente elezione del colonnello Tommaso Acconcia nella tornata successiva del 1952, Pasquale Jenco tornò alla guida del comune di Capodrise nel 1956 restandovi, per due mandati successivi fino al 1964.

La soppressione dell’autonomia comunale fu dunque un grosso “vulnus”, una ferita al proprio orgoglio di campanile, ma tolto questo fatto, mi pare di poter dire che i rapporti tra Capodrise e Marcianise, prima di questa vicenda, e per certi aspetti anche dopo, erano stati sempre fecondi e cordiali, non solo nel senso che marcianisani e capodrisani avevano saputo andare d’accordo sia pure in uno spirito emulativo che si risolveva nella sostanza in una concorrenza benefica per entrambe le comunità, ma addirittura nel senso che tra i due centri viveva una corrispondenza quasi parita­ria che si riconosceva in ovvie tradizioni comuni, grazie alle quali accentuazioni diverse arricchivano e non tendeva­no affatto a separare. Del resto la contiguità anche spaziale dei due centri è tale che sarebbe impensabile, a meno di qualche sopravvenuta lacerazione, come nel nostro caso, un destino diverso: quando una strada segna un confine, o quando il confine del tutto innaturalmente passa addirittura tra le case, come pensare che si possa rinchiudere nell’ambito di muri cultu­rali, ideologici o spaziali una ovvia persistenza di elemen­ti comuni?

Anzi, a ben guardare, in più circostanze erano state forse maggiori le occasioni di iniziative comuni che non di sepa­razione. Lasciando stare le epoche antiche quando i due centri erano entrambi casali di Capua, anche se Capodrise aveva anche una piccola parte di dipendenza feudale dal Conte di Acerra, vorrei ricordare una personalità della Capodrise del Settecento come Domenico Mondo, pittore, scrittore, figlio del giureconsulta Marco Mondo i cui quadri, pur essendo egli un capodrisano puro sangue, sono presenti nella monumentale chiesa dell’Annunziata di Marcianise e formano un corpus pittorico di notevole importanza e consistenza, secondo solo all’opera di Paolo de Majo. Preciso che per l’Annunziata il Mondo dipinse ben nove quadri da porre nella chiesa, che tuttora si possono vedere, tranne uno andato perduto, mentre un decimo a tutti sconosciuto ma del quale ho ritrovato la prova documentale dipinto nel 1772-73 e raffigurante lo Sposalizio mistico di santa Caterina, fu posto sull’altare situato nella corsia delle donne dell’antico Ospedale della Casa Santa. In questo caso nessuna rivalità, né di campanile né di tipo artistico (ancora più velenosa della prima) impedì agli amministratori della Casa Santa di Marcianise di giovarsi dell’opera di un artista così valente, ancorché capodrisano.

E sempre nel nome dell’arte si consumò la particolare vicenda che coin­volse capodrisani e marcianisani in un cenacolo culturale d’inizio del secolo scorso che venne vissuto con particolare intensità: è quello di Crociere Barbare, la rivista stampata a Marcianise, comparsa nei primi del 1900 (per la precisione nel 1917) e che vide tra i suoi animatori il capodrisano Elpidio Jenco unito ai marcianisani Massimo e Giulio Gaglione, Sossio Gigliofiorito (che ne era direttore), Pasquale Tartaglione, Aniello Calcara ed altri. La rivista si impose in campo addirittura internazionale (nel primo numero ad esempio fu pubblicato un testo di Tristan Tzara fondatore del dadaismo) raccogliendo per qualche tempo i lettori della dismessa rivista napoletana La Diana, sulla quale il giovane Jenco aveva mosso i primi passi letterari. Né in Jenco, capodrisano verace ed estatico ammiratore del suo borgo nativo, da lui più volte poeticamente cantato, si può rinve­nire alcunché che possa dirsi di contesa con i marcianisani. Del resto egli stesso a Marcianise passava buona parte del tempo e a Marcianise, ad esempio, nel 1920 fu candidato per la elezione non riuscita al Consiglio Provin­ciale insieme a Giuseppe Di Benedetto, dalla locale sezione del Partito socialista dalla quale era stato espulso qualche tempo prima Saverio Merola fino ad allora capo dei socialisti marcianisani. E per rima­nere a Jenco non va passato sotto silenzio il fatto che egli sposò una marcianisana, la cara signora Anna Santoro, che io ho conosciuto vedova negli ultimi anni da lei passati nella casa di Marcianise della sorella Giuseppina Santoro, che abitava in via Duomo, in un’ala del mio palazzo paterno. Elpidio Jenco nutrì sempre un profondo rapporto con gli amici marcianisani scoperti nella comune battaglia socialista nel nome di Domenico Santoro: a lui Jenco dedicò nel 1921 una importante lirica in occasione dell’omaggio deciso dall’amministrazione comunale guidata da Saverio Merola di intitolare la strada principale della cittadina appunto al nome di Domenico Santoro e di traslare la sua salma da una tomba anonima ove era stato sepolto, alla sua morte il due novembre 1903, addirittura al centro della cappella municipale di fronte alla porta d’ingresso, ove tuttora si trova.

Un altro personaggio di grande rilievo nella cui storia biografica è rintracciabile la duplice anima marcianisano-capodrisana è sicuramente il venerabile don Giacomino Gaglione, nato a Marcianise nel 1896, da famiglia di marcianisani autentici, e poi vissuto per buona parte della sua vita a Capodrise, dove morì nel 1962, per essere però sepolto in un primo momento nel cimitero di Marcianise da dove infine la salma è stata traslata il 18 ottobre 1964 per essere tumulata nella chiesa di S. Andrea Apostolo di Capodrise dove si trova attualmente. In entrambe le circostanze sono stato presente e in entrambe le circostanze ho visto migliaia di marcianisani e capodrisani uniti nella commozione accompagnare la bara di don Giacomino, testimone per cinquant’anni del mistero della croce e della sofferenza cristiana, prima da Capodrise a Marcianise e poi da Marcianise a Capodrise.

E se Jenco è sentito, per i rapporti che ha avuto con Mar­cianise, come un marcianisano acquisito ed è un grave peccato che non si sia sentito ancora il bisogno a Marcianise di dedi­cargli una strada, così il venerabile Giacomino Gaglione, nato a Marcianise, è giustamente considerato un capodrisano acquisito e bene ha fatto Capodrise a ricordarne il nome intitolandogli l’Istituto Comprensivo e a custodirne gelosamente la casa dove visse e morì, come male ha fatto finora Marcianise a non ricordarne la straordinaria figura con la intitolazione di una strada. Senza dire che in un passato ancora più remoto tale vincolo unitario si era già espresso in termini religiosi, nono­stante la divisione del territorio nelle due diocesi di Capua e di Caserta, in processioni comuni che addirittura vedevano nel giorno di S. Marco la processione detta “Mag­giore” uscire dal Duomo di Marcianise con i vescovi e i sacerdoti capuani e casertani per recarsi appunto nella chiesa di S. Andrea di Capodrise, dove veniva celebrata la Messa solenne.

Eppure nonostante questi indubbi elementi di continuità di una storia comune, è vero che anche tutt’oggi persiste, se non in maniera così accentuata come è stato nel recente passato, una giusta rivendicazione di capodrisanità rivendi­cata naturalmente nei confronti della vicina Marcianise. E’ indubbio che la soppressione dell’autonomia al comune di Capodrise, punito secondo alcuni per la presenza in loco di una tradizione antifascista che a sei anni dalla marcia su Roma ancora era viva (mentre a Marcianise il passaggio al fascismo fu pressoché totale) coincise con anni di disinteresse dei marcianisani, che ressero le sorti anche della frazione di Capodrise, nei confronti delle esigenze di questa comunità periferica che era stata autonoma e che veniva aggiunta come corpo estraneo ad una entità comunale con una sua identità: ed è vero anche che ben poco si seppe fare in quegli anni, non certo per colpa dei marcianisa­ni, ma certo dei tempi anche politici che non lo consentirono, per il riscatto di una terra fortemente depredata dalla miseria.

E dover far riferimento a Marcianise, per un obbligo di legge o per una elementare esigenza amministrativa, da parte di una popolazione che aveva avuto il suo Comune e propri amministratori fu giustamente sentito come l’umiliazione di una patria, che per piccola che fosse, che per miserabili che ne fossero le condizioni, aveva comunque una sua storia, di fatto misconosciuta a livello giuridico. E come sempre succede in questi casi i marcianisani che, onestamente, nulla avevano fatto per favorire quella solu­zione furono indirettamente ritenuti responsabi­li di tale umiliazione. Ma il solco, paradossalmente, si acuì proprio negli anni del secondo dopoguerra: quando Capodrise settant’anni fa recuperava la sua autonomia, in qualche misura il risen­timento aumentò, man mano che la vicenda politica dei primi anni della repubblica veniva sviluppandosi e svolgendosi nei due centri con esiti sensibilmente difformi. Capodrise, anche prima degli anni ’40, era stata sede di una comunità che politicamente, nella sua maggioranza, si era sempre ideologicamente schierata a sinistra.

Negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, nel clima acceso alimentato dalla forte contrapposizione anticomunista da parte della Democrazia Cristiana, Capodrise scelse di schierarsi con un appoggio massiccio al Pci, come nel caso delle tre amministrazioni comuniste guidata da Pasquale Jenco, di cui ho parlato in precedenza.

Marcianise ha avuto invece nei primi decenni repubblicani una storia politica molto diversa: la persistenza nella città di una storica classe dirigente costituita dai ricchi agrari aveva favorito la totale occupazione del potere, attraverso una gestione clientelare, sia del Comune, sia soprattutto delle importanti istituzioni di beneficenza come la locale Congregazione di Carità che alla fine dell’Ottocento era ancora di più divenuta ricca in seguito al lascito del canonico Giovan Battista Novelli (morto nel 1881). Ciò aveva determinato la presenza di un predominio pressoché esclusivo di queste forze conservatrici che bene avevano saputo sfruttare la forza e lo strumento del paternalismo interessato, attraverso un esercizio del potere che utilizzando le ragguardevoli risorse dalla Congregazione di Carità, consentiva in qualche misura, da un lato di mantenere una pace sociale determinata dallo smussamento delle punte più radicali di rivolte possibili, ma mai realmente attuate, dall’altra il mantenimento di un blocco di potere di natura prevalentemente parentale ed affaristico che a mio avviso ha impedito, o quanto meno ritardato, la nascita di una matura coscienza civile.

Del resto non bisogna certamente attendere gli anni del secondo dopoguerra per averne la riprova: già la vicenda dei primissimi anni del ‘900 che coinvolse Domenico Santoro appare per molti aspetti significativa a questo riguardo. Ad essa ho dedicato vari studi, in questa sede mi limito solamente a dire che la lotta del Santoro, socialista umanitario e combattente della libertà, contro il blocco di potere presente nelle varie amministra­zioni marcianisane, ma soprattutto, nella potentissima Congregazione di Carità, fece emergere quanto forte fosse l’incidenza di quel blocco di potere (che io ho chiamato “Il potere della miseria”) anche a livello popolare. Il popolo dei contadini e dei pezzenti (cavaliere dei pez­zenti, lo ricordava Antonio Ricciardi in occasione del primo anniversario della sua scomparsa) che pure Santoro aveva organizzato in una lega, come ha ben messo in luce il compianto Carmine Cimmino (anch’egli capodrisano illustre con larga frequentazione a Marcianise dove ha insegnato per decenni), in pratica lo lasciò solo: Santoro aveva pensato che il blocco conservato­re potesse essere infranto dal nuovo soggetto politico popolare al quale egli guardava sull’esempio delle leghe rosse che si erano costituite altrove in Italia: non fu così.

I potenti di Marcianise ebbero facile gioco sia sul capopo­lo, condannato per diffamazione, tra l’altro per solo quat­tro delle 21 accuse da lui rivolte al sindaco Giuseppe Foglia, sia sulle aspettative confusamente sindacalistiche che le idee di Santoro avevano diffuso. Stritolate dalla miseria, tenute buone dai lauti sussidi che arbitrariamente venivano concessi da quelli che detenevano il potere, le masse popolari, diseducate da decenni di clientelismo gestito da parte dei signori, lasciò Santoro al suo destino, confermando, per necessità ed immaturità politica, il proprio consenso com­prato a quelli che da sempre gestivano la cosa pubblica marcianisana. Quello stesso blocco di potere si ritrovò a Marcianise rafforzato dalla dittatura fascista, e si ritrovò sorprendentemente ancora attivo, nelle forze monarchi­che e in parte nella Democrazia Cristiana degli esordi, che negli anni dell’immediato dopoguerra era ancora fortemente condizionata dai signori locali. Non così a Capodrise dove le forze popolari non egemonizza­te, né strangolate da poteri baronali seppero affrancarsi ben presto vivendo la loro partecipazione alla vita politi­ca, sia essa locale che nazionale, con una forte tensione ed una ricca dialettica, che anche quando conosceva fasi di polemica forte e serrata, seppe comunque essere particolar­mente incisiva nell’evoluzione e nella maturazione civica dei capodrisani.

Fu quello il periodo della più forte contrapposizione tra Capodrise e Marcianise, la “rossa” Capodrise antitetica alla “bianca” Marcianise: il luogo della battaglia politica, a volte anche di un certo settarismo fazioso, Capodrise; la terra del clientelismo, del paternalismo bonario ed accondi­scendente Marcianise. Una diversa tensione civile era certa­mente presente nelle due comunità e se a Capodrise si respi­rava l’aria della partecipazione e dell’impegno, sui proble­mi, sulle cose, sulle idee, dibattute in piazza e nei circo­li; Marcianise era invece il luogo di grandi intelligenze che vivevano, come vivono, nel chiuso delle loro pareti domestiche, dove il senso della comunità si esprimeva, forse, nelle feste religiose, ma non certo nella tensione civica che a Capodrise costituiva, invece, un aspetto essenziale della vita comunitaria. Ecco dunque che il vecchio risentimento per l’innaturale perdita dell’autonomia e l’aggregazione a Marcianise sentite come una vera e propria ingiustizia si alimentava ulteriormente grazie ad una differenziazione politica che nel clima acceso della guerra fredda non poteva trovare motivi di incon­tro.

Ma da allora molta acqua è passata sotto i ponti: quel clima, per fortuna superato, ha portato a nuove tolleranze e a diverse aggregazioni: la “rossa” Capodrise, grazie all’im­pegno di giovani democratici cristiani di sinistra, vicini soprattutto alla lezione di Dossetti e di Aldo Moro, di cui indubbiamente il prof. Andrea De Filippo fu un esponente di primo livello e prima di lui l’indimenti­cato preside Antonio Raucci, ha saputo riguadagnare terreno non solo nel consenso popolare, ma anche nella coscienza dei capodrisani, operando, stavolta sì, in sintonia con Marcia­nise, per una battaglia ideale che però si orientava in direzioni diverse nei due centri. I giovani leoni della democrazia cristiana marcianisana, anch’essi pressoché tutti della sinistra democristiana (Vincenzo Capone, Luigi Iovine, Gennaro Agrippa, Gabriele Trombetta, Domenico Ievoli, Gabriele Trovello), portarono a compimento la sostituzione della classe dirigen­te ancora figlia di quel blocco di potere signorile che aveva dominato Marcianise per decenni; la Dc capodrisana, unita alle forze socialiste seppe offrire una alternativa anch’essa di natura popolare alle forze della sinistra comunista, rendendosi, quindi, per questa aspetto, degna di ruolo di governo di una comunità, ripeto, fortemente politi­cizzata.

Tuttavia anche in quegli anni il dialogo tra i due centri non si è mai interrotto del tutto e se è vero che mai un capodrisano sarebbe venuto di sua volontà ad abitare a Marcianise, è altrettanto vero che di buon grado parecchi marcianisani sono venuti ad abitare a Capodrise o vi hanno lavorato con piacere ed interesse, contribuendo non poco anche allo sviluppo culturale e civile della stessa comunità capodrisana. Ed intendo riferirmi ai tanti insegnanti elementari di Mar­cianise che per decenni sono stati educatori di generazioni di capodrisani: da Salvatore (Tore) Piccolo a Nunzio Lasco, indimenticato fiduciario della locale scuola elementare al già citato Gabriele Trovello, a Fran­cesco Farro, a Luigi Vesta, a Teresa De Filippo, fino a mio padre Agostino Delli Paoli, che accompagnavo ragazzo alla scuola elementare di Capodrise e che da Capodrise, come del resto tutti gli insegnanti che ho citato sopra, non ha mai voluto allontanarsi, pur avendo titoli e carriera sufficien­ti per ambire al trasferimento a Marcianise.

Ora mi pare che l’antica rivalità possa dirsi superata, almeno nel senso di un campanilismo deteriore e le giovani generazioni non credo che neppure più avvertano un tale sentimento, grazie anche al fatto che molti dei giovani capodrisani studiano presso le scuole superiori di Marciani­se e si fanno onore, almeno per quello che risulta alla mia esperienza di docente per trent’anni presso il Liceo Scientifico e Classico “Quercia”, dove la pattuglia degli alunni di Capodrise si è sempre segnalata per profitto. Ma la innegabile integrazione non significa affatto omologa­zione. Gli usi e le tradizioni resistono ma è innegabile che l’accrescimento demografico della cittadina che nell’ultimo ventennio ha portato ad una espansione edilizia di tutto rispetto sia verso est, sia verso ovest, ha determinato nuove assimilazioni e relazioni. Moltissimi marcianisani hanno invaso Capodrise ma non l’hanno sicuramente colonizzata, anzi è vero il contrario. Questa cittadina ha saputo integrare i vecchi “nemici”. Questi sono diventati capodrisani pur senza rinnegare le loro origini ritrovandosi in una comunità solidale più compatta dove per certi aspetti la qualità della vita è maggiormente a misura d’uomo. A questa comunità, che è diventata anche la mia, formulo i migliori auguri per il suo futuro. Grazie